Per fare un Bitcoin ci vuole così tanta energia che vale oro
La blockchain consuma molta, troppa energia, perfino più di quella richiesta per estrarre alcuni metalli dai giacimenti minerari.
A questa conclusione è giunto un recente studio, pubblicato su Nature Sustainability (Quantification of energy and carbon costs for mining cryptocurrencies, qui un estratto), in cui gli autori evidenziano l’enorme dispendio energetico dei processi informatici che regolano gli scambi delle principali cripto valute, ad esempio i Bitcoin.
Bitcoin, Ethereum, Litecoin e Monero sono le quattro valute virtuali esaminate nel documento: tutte impiegano la tecnologia blockchain per convalidare le transazioni su un registro digitale “a catena di blocchi”, attraverso un incessante lavoro di “mining” che consente, letteralmente, di estrarre nuova moneta (vedi QualEnergia.it per approfondire cos’è e come funziona la blockchain).
Il punto, osserva lo studio, è che per generare l’equivalente di un dollaro in cripto valute, si utilizza una quantità di energia superiore a quella che serve per ricavare lo stesso valore di mercato (un dollaro) estraendo un metallo prezioso dal sottosuolo.
Difatti, sostengono gli autori, l’energia necessaria a ottenere un dollaro in Bitcoin è circa 17 mega joule (MJ) contro rispettivamente 4, 5 e 7 MJ che si devono consumare in media per creare un valore di mercato equivalente (1 $) in argento, oro e platino con le attività minerarie convenzionali.
Non vanno molto meglio le altre cripto valute, perché si parla di 7-14 MJ “bruciati” mediamente dalla tecnologia blockchain, avendo sempre come riferimento un dollaro di valore generato.
Le stime riguardano il periodo dal primo gennaio 2016 al 30 giugno 2018.
Solo l’estrazione dell’alluminio consuma ancora più energia: 22 MJ secondo i dati riferiti dallo studio.
Torniamo così alla principale critica cui si espongono le reti digitali interconnesse: il consumo elevatissimo di elettricità, dovuto alla notevole potenza di calcolo richiesta per garantire la sicurezza delle operazioni effettuate su queste reti, attraverso sistemi di verifica proof-of-work (prova di lavoro).
Una blockchain può essere considerata “sostenibile” sotto il profilo ambientale?
La domanda è pertinente, soprattutto quando si pensa ai tanti progetti in corso per applicare la blockchain ai settori tradizionalmente gestiti dalle utility dell’energia, quindi ad esempio per sviluppare reti diffuse di utenti attivi che autoproducono e vendono kilowattora fotovoltaici.
Lo studio ha stimato in almeno 3-15 milioni di tonnellate la CO2 emessa dalle attività di mining per le quattro monete virtuali in due anni e mezzo (1 gennaio 2016-30 giugno 2018), di cui la maggior parte è da attribuire ai Bitcoin.
Per realizzare blockchain più “pulite” a minore impatto ambientale, ci sono diverse possibilità: tra queste, spostare i centri di calcolo in regioni con abbondante energia rinnovabile a basso costo (in Islanda ad esempio), oppure adottare sistemi più semplici per il controllo e la convalida delle transazioni, come quelli denominati proof-of-authority (prova di autorità, vedi anche la nostra intervista a Colleen Metelitsa di GTM Research).
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