Per decarbonizzare le “disruptive technologies” da sole non bastano

Laboratorio Metrologico Ternano

Per decarbonizzare le “disruptive technologies” da sole non bastano

9 Dicembre 2019 Articoli cambiamenti climatici decarbonizzazione modello economico transizione energetica 0

Pubblichiamo qui la terza parte dell’editoriale dell’ultimo numero del 2019 della rivista bimestrale QualEnergia (prima e seconda parte).

 

La Iea, da sempre molto cauta sulle rinnovabili, ammette ormai che queste energie vedranno una crescita del 50% nel periodo 2019-2024, con un incremento di 1.200 GW, per il 60% grazie al fotovoltaico (vedi rapporto WEO su QualEnergia.it, ndr).

La ragione per cui queste tecnologie si fanno strada con tanta rapidità è legata alla riduzione dei prezzi dell’elettricità prodotta: dal 2010 il kWh solare è calato dell’84%, l’eolico del 49%.

Stessa dinamica per le batterie al litio che hanno visto una riduzione dell’87% dei prezzi dal 2010 al 2019. All’inizio del decennio circolava una manciata di auto elettriche, quest’anno si prevedono vendite per 2,9 milioni di veicoli elettrici.

E, certamente, alla base di una strategia vincente di decarbonizzazione ci deve essere una coraggiosa politica per l’efficienza energetica. Qualche paese punta, ad esempio, a ridurre del 50% i consumi di energia al 2050.

Ma, il cuore della riflessione climatica è racchiusa proprio nelle dinamiche di riduzione dei consumi.

Non basta infatti la diffusione di tecnologie sempre più efficienti, lampadine, auto, elettrodomestici, motori elettrici, edifici, ecc., ma occorrono anche dei cambiamenti del sistema economico e un mutamento degli stili di vita.

Facciamo un esempio. Se compro un Suv, i consumi e l’uso dei materiali aumenteranno (ricordiamo che tra il 2010 e 2018 i Suv hanno rappresentato la seconda causa più importante nella crescita mondiale della CO2).  Se sceglierò un modello di auto a basso consumo, l’impatto sull’ambiente si ridurrà. E, se opterò per l’utilizzo del trasporto pubblico, dei modelli di sharing (dai monopattino alle auto) o mi sposterò in bici e a piedi, il mio impatto si ridurrà ulteriormente.

Ma il passaggio a modelli più virtuosi prevede un cambiamento degli stili di vita accompagnato da interventi delle istituzioni. In questo caso nel predisporre offerte adeguate di trasporto pubblico, piste ciclabili, eccetera.

Un discorso analogo si potrebbe fare per il progressivo passaggio dei processi industriali verso pratiche sempre più circolari. Anche in questo caso avremo imprese virtuose che anticipano i tempi nell’adozione di processi lavorativi e nell’offerta di prodotti a minor impatto ambientale.

Ma sarà importante l’azione delle istituzioni nell’orientare la ricerca in settori strategici, nel frenare la propensione delle aziende verso l’obsolescenza programmata dei prodotti, nell’adottare una carbon tax, nel definire norme sugli “End of waste”.

È evidente che l’impatto dei nuovi stili di vita e degli interventi delle istituzioni è difficilmente quantificabile negli scenari climatici a lungo termine. E in effetti, di norma la riduzione delle emissioni viene definita in funzione dei miglioramenti dell’efficienza energetica nei vari settori e della diffusione delle rinnovabili.

Tuttavia stanno emergendo anche studi nei quali si cerca di quantificare l’impatto delle scelte non tecnologiche.

Per esempio, in un recente rapporto del Fraunhofer Institute, “Study on Energy Savings Scenarios 2050”, si stima che l’ottimizzazione delle tecnologie e la rimozione degli ostacoli che ne impediscono la diffusione consentirebbero di dimezzare la domanda di energia europea a metà secolo.

Ma, considerando anche l’impatto di quei parametri che vengono raggruppati nella definizione di New Social Trends (cambiamenti degli stili di vita, nuovi modelli economici e sociali, shared economy, digitalizzazione…), i consumi tendenziali potrebbero ridursi ancora, arrivando a ridursi di due terzi (-67%), facilitando quindi enormemente lo sforzo di decarbonizzazione.

Nella figura qui sotto l’andamento dei consumi finali di energia in Europa al 2050. Rispetto allo scenario di base individuato dalle elaborazioni del modello Primes nel 2016, si evidenziano i margini di miglioramento ottenibili grazie allo sviluppo delle nuove tecnologie (removing market barriers) e quelli ancora più spinti considerando anche i cambiamenti degli stili di vita, di modello economico, della digitalizzazione.

Anche lo studio “Net Zero by 2050: from whether to how”, coordinato dalla European Climate Foundation considera esplicitamente l’impatto dei cambiamenti di stili di vita in vari settori, – dalla mobilità, agli acquisti, all’alimentazione – e dell’organizzazione sociale.

Secondo lo studio, questi aspetti potrebbero contribuire in maniera determinante nella riduzione delle emissioni rispetto allo scenario tendenziale

Nella figura in basso si vede che negli scenari sulle emissioni dei gas climalteranti in Europa il ruolo dei cambiamenti sociali e del modello di società contribuisce per oltre un terzo nel raggiungimento dell’obbiettivo “net zero carbon” al 2050.

Perché sottolineiamo la specificità di queste elaborazioni? Perché, al di là dei risultati quantitativi, sottolineano l’importanza di fattori che normalmente non vengono adeguatamente considerati dai decisori, e a volte anche dagli ambientalisti.

E questa riflessione si intreccia necessariamente con i temi delle diseguaglianze sociali.

Peraltro, anche l’articolo sui rischi di conseguenze climatiche irreversibili (citato nella prima parte di questo articolo) conclude con la necessità, per evitare di cadere in questa trappola mortale, di un fondamentale riorientamento dei valori umani, della giustizia sociale, delle istituzioni e delle economie, oltre all’ovvio contributo che potrà venire dalle tecnologie “green”.

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